Naturalmente io già provavo a suonare e a cantare il blues da qualche anno, ed ero faticosamente risalito alla sua fonte originaria partendo dal rock e passando per il blues inglese, per poi approdare finalmente ai modelli neroamericani che intanto erano tornati in auge grazie al benemerito film “The blues brothers”.
La mia storia artistica e professionale nasce nel quartiere romano di Trastevere, dove nei primi anni ottanta del secolo scorso cominciano a nascere buona parte dei locali storici di musica dal vivo e dove nel 1983 insieme ad un amico che si improvvisa barman prendo in gestione la sala interna di un ristorante piuttosto tradizionale che si chiama tutt’ora Ciak, dandole un nome familiare solo a pochi appassionati e acculturati bluesofili, cioè “Barrelhouse”.

Barrelhouse era definita la tipica bettola dove i primi bluesman intrattenevano un modesto e turbolento pubblico di gente di colore dopo l’orario lavorativo nelle pianure sconfinate del territorio statunitense.
Cominciai lì a cantare e a suonare il piano tutte le sere per un pubblico di studenti, fricchettoni e nottambuli dell’epoca, con un repertorio di canzoni blues e soul che avevo tirato giù dai dischi.C’era molta apertura e curiosità nel pubblico a quei tempi, la vita notturna era un pò una novità dopo gli anni del terrorismo, e in questo piccolo spazio si creavano spontaneamente delle jam infinite con musicisti storici del blues romano come Leno Landini, talento assoluto dell’armonica a livello anche nazionale, e Massimo “Bizzo” Bizzarri, valente chitarrista e cugino del grande Roberto Ciotti.

Ho conosciuto lì Francesco Forti, un personaggio unico e storico del jazz italiano. Sassofonista, clarinettista, conduttore di tante trasmissioni radiofoniche di jazz.

Francesco aveva una grande attenzione per le radici popolari del jazz e cantava e suonava al piano i blues e gli spirituals tradizionali con rara autenticità e con un’intensità mistica ma estremamente sobria, scevra da qualsiasi forzatura ed eccesso caricaturale, che a quei tempi era un rischio corrente a causa della diffusa ingenuità rispetto all’dea della “voce nera”.

Molti pensavano bastasse arrochire il timbro per esprimere quel tipo di feeling, con risultati spesso grotteschi. Francesco mi fece capire che quello che importava di più erano la sostanza e i contenuti. Frequentandolo e suonando con lui imparai moltissimo sulle sfumature e sulla dignità culturale di una musica come quella neroamericana,che per me era ancora un’istintiva affinità spirituale coltivata ascoltando e imitando pianisti e cantanti come Ray Charles, ma anche come Steve Winwood, Roosevelt Sykes, Menphis, Slim, Eddie Boyd, Leon Russell, Mose Allison, e tanti altri.
Francesco fu anche la persona che mi presentò al pubblico romano in una manifestazione importante. Quando nel 1987 l’ Alexanderplatz di Giampiero Rubei organizzò una rassegna di lezioni concerto all’università La Sapienza, tenute proprio da Francesco con prestigiosissimi ospiti musicali, mi fece esemplificare il blues pianistico, dopo che Enrico Pierannunzi aveva suonato dei ragtime di Scott Joplin.

Potete immaginare a soli 23 anni che emozione potesse rappresentare una situazione del genere.

Questi sono però i passi decisivi per sviluppare una consapevolezza artistica e sarò sempre grato a Francesco Forti per questo e per molto altro.
Alla fine degli anni ’80 ero ormai abbastanza addentro all’ambiente musicale romano, che era giovane e vivo più che mai, con un continuo germinare di clubs, festival e rassegne. Oltre che con Francesco, suonavo col chitarrista Maurizio Bonini, con il violinista, chitarrista e cantante Stefano Tavernese, con cui partecipai alla mitica trasmissione “Doc” nel 1988, con band milanesi come la Level Blues Band e cominciavo qualche volta anche ad accompagnare qualche cantante neroamericano, come Harold Bradley e Eddy C.Campbell.

Avevo anche un mio trio in cui cantavo e suonavo il piano e devo ricordare qui che, al di là dei tanti locali dove mi esibivo nella scena estremamente viva di quel periodo, fu l’ Alexanderplatz di Giampiero Rubei che mi diede più fiducia e visibilità presso il pubblico romano. Mi ero affacciato lì poco più che ventenne, nel 1984, quando aveva appena aperto e Giampiero mi diede già allora 2 date a settimana. Il rapporto di amicizia con lui è poi durato tutta la vita e gli devo molto dell’immagine che ho sviluppato presso il pubblico romano, grazie al suo club, ai concerti sul glorioso palco di Villa Celimontana dove mi propose  anche quando, inizialmente non potevo ancora garantire una grande affluenza di pubblico.